Le tre domande della domenica al professore Francesco Pira

Troppa violenza tra giovani. La cronaca ci restituisce quasi quotidianamente episodi in cui morte e dolore si ripetono. Quanto le nuove tecnologie influiscono nel rendere fragili le nuove generazioni, e quanto fragilità, solitudine, vetrinizzazione possono incidere sui loro comportamenti spesso suscitando emulazione? Abbiamo voluto sentire il Professore di Sociologia dell’Università di Messina, Francesco Pira, esperto sulle dinamiche relazionali di pre-adolescenti, adolescenti e giovani. Il docente universitario dell’Ateneo Peloritano ha pubblicato di recente due saggi con Franco Angeli dedicati ai più giovani: Figli delle App e il recentissimo La Buona EduComunicazione. Insieme alla professoressa di psicologia UniMe, Carmela Mento, ha firmato il volume La violenza in un click. Nei mesi di maggio e giugno sarà Visiting Professor in Polonia presso l’Università Marie Curie di Lublino e l’Università di Tblisi in Georgia. Nei mesi scorsi è stato chiamato dal Centro de Investigation Social Aplicada dell’Università di Malaga a far parte di un gruppo di ricerca sulla Famiglia Digitale. E’ stato nominato nel 2025 componente del Comitato Scientifico dell’Intergruppo Parlamentare sul Digitale presieduto dall’onorevole Naike Gruppioni. A marzo 2024 è stato nominato Presidente della branch Comunicazione Media e Informazione di Confassociazioni, di cui era stato Vice Presidente e dal giugno 2020 è Presidente anche dell’Osservatorio Nazionale sulle Fake News. Saggista e autore di oltre 80 tra monografie, contributi in volumi e articoli scientifici (in italiano, inglese e spagnolo), è condirettore della rivista Addiction & Social Media Communication e fa parte del comitato scientifico di riviste scientifiche e convegni, in Italia e all’estero

I recenti fatti di cronaca mostrano una crescente brutalità nei gesti: si tratta di episodi isolati o di un segnale di cambiamento più profondo nella società giovanile?

Gli ultimi casi di cronaca non sono episodi isolati, ma rappresentano un segnale preoccupante di un cambiamento più profondo nella società giovanile. La crescente brutalità dei gesti, specie tra i giovani, è il riflesso di una crisi educativa e relazionale che coinvolge famiglia, scuola e società. L’omicidio di Sara Campanella dimostra quanto sia diventato difficile accettare un “no” e come l’incapacità di gestire il rifiuto si trasformi in violenza. Viviamo in una società sempre più competitiva, dove i sentimenti sembrano svanire e l’insicurezza cresce, e questo alimenta la fragilità emotiva di molti giovani. Secondo l’Osservatorio Fragilitalia, “il 24% dei giovani trova scusabile che un uomo picchi una donna”, un dato doppio rispetto agli adulti e che evidenzia una pericolosa tolleranza verso la violenza. Le devianze emergono anche sul web: revenge porn, sexting, sextortion, deep fake sono fenomeni che colpiscono soprattutto le donne, ridotte a oggetti da punire o esporre. Applicazioni come “Deep Nude” contribuiscono a un sistema che offende non solo il corpo ma la donna in quanto donna. I dati della Polizia di Stato mostrano una violenza strutturale: “nel triennio 2021-2023, l’81-82% delle vittime di maltrattamenti sono donne”, così come il 91% delle vittime di violenza sessuale. Inoltre, “il 65% degli autori di violenza sessuale di gruppo ha meno di 35 anni”, segno che la brutalità nasce già nelle fasce giovanili. Il problema non è solo legale, ma culturale: serve un’educazione affettiva che insegni il rispetto dell’altro e rifiuti l’idea che l’amore sia possesso. Come società dobbiamo superare il “giustificazionismo” e costruire percorsi di corresponsabilità. Occorre attivare processi educativi che coinvolgano tutti – scuola, famiglia, media – e che insegnino il valore dell’empatia, della solidarietà e del rispetto. Solo così potremo arginare il “cattivismo” dilagante e spezzare una spirale di violenza che non possiamo più ignorare.

I social media stanno contribuendo a desensibilizzare i giovani alla violenza? Esiste un effetto emulativo nei contenuti estremi?

I social media stanno contribuendo in modo significativo alla desensibilizzazione dei giovani alla violenza, amplificandone la visibilità e normalizzandone l’accettazione. Le piattaforme digitali, infatti, non sono più solo strumenti di comunicazione, ma veri e propri spazi dove si costruiscono le identità giovanili e si sviluppano modelli comportamentali, spesso devianti. Il caso di Alice Schembri ne è una tragica dimostrazione: violentata da quattro coetanei che hanno anche filmato e diffuso l’aggressione. Alice ha subito “una doppia violenza”, quella fisica e quella mediatica. Questo episodio rivela come la rete possa diventare un’arma che uccide due volte, trasformando la vittima in spettacolo e privandola di ogni dignità. La spettacolarizzazione della violenza attraverso i video condivisi, i commenti degli hater, e le challenge estreme generano un effetto emulativo tra i più giovani. L’identificazione con comportamenti aggressivi o trasgressivi, che ricevono visibilità e approvazione online, contribuisce a formare una cultura in cui dominano prevaricazione e assenza di comprensione emotiva. Le parole di Alice nel suo post su Facebook – “io non potevo e questo segreto dentro di me mi sta divorando” – sono il grido di una generazione sopraffatta da un dolore che non trova ascolto. I dati confermano questa tendenza all’emulazione e all’insensibilità: secondo la Polizia di Stato, “il 76% delle vittime di violenza sessuale e il 73% delle vittime di violenza sessuale di gruppo nel 2023 ha meno di 34 anni” e “il 65% degli autori ha meno di 35 anni”. Inoltre, il revenge porn è una delle devianze più diffuse: la diffusione illecita di contenuti intimi è spesso usata per vendetta e controllo, causando danni psicologici devastanti. Come dimostra il caso del bot “Deep Nude” su Telegram, la tecnologia è spesso piegata al servizio della violenza. I social non sono solo specchio ma anche motore di comportamenti estremi: creano una falsa percezione di impunità e disumanizzazione dell’altro. L’effetto emulativo è reale e pericoloso. È urgente rafforzare l’educazione digitale, relazionale e all’utilizzo consapevole dei social network, insegnando ai giovani che la realtà non è un videogioco e che ogni azione ha conseguenze profonde. Servono pene più severe per chi diffonde immagini intime senza consenso, ma soprattutto è necessario un cambiamento culturale profondo. Come società, abbiamo il dovere di proteggere le “tante Alice” e costruire uno spazio online più umano, sicuro e rispettoso.

Come si può intervenire efficacemente nei contesti più a rischio senza cadere nella stigmatizzazione dei giovani o dei quartieri?

Intervenire nei contesti più a rischio senza cadere nella stigmatizzazione richiede un cambio di paradigma: non si tratta di “etichettare” persone o quartieri, ma di leggere in profondità i bisogni sociali, educativi e relazionali che emergono da questi ambienti. Spesso, la violenza giovanile e di genere nasce da contesti segnati da disuguaglianze, solitudine, fragilità affettive e mancanza di modelli positivi. Come riportato dai dati dell’Osservatorio Fragilitalia, “nei ceti popolari il 22% giustifica la violenza sulle donne”, a fronte del “12% del ceto medio”. Questo dimostra che non esiste un legame biologico o culturale con la violenza, ma una correlazione con le condizioni sociali in cui si cresce. Per intervenire efficacemente serve una presenza educativa diffusa e integrata. Le scuole, i servizi sociali, le realtà del terzo settore e le istituzioni devono lavorare insieme per creare percorsi di formazione affettiva, educazione al rispetto e cittadinanza attiva. Non si può agire “su” un quartiere o “contro” un giovane, ma “con” loro. Occorre valorizzare le risorse già presenti nelle comunità, sostenere i ragazzi e le ragazze nella costruzione di un’identità positiva, fondata sul riconoscimento reciproco e non sulla sopraffazione. Fondamentale è anche il ruolo dei media: raccontare solo i crimini e mai le storie di riscatto alimenta il pregiudizio. Serve invece una narrazione che restituisca complessità, che denunci senza criminalizzare. Dobbiamo veicolare il supporto reciproco, l’altruismo, le buone maniere e l’impegno comune, non solo nelle aule, ma anche negli spazi pubblici, digitali e informali. Infine, è indispensabile investire in ascolto e prevenzione: centri antiviolenza, sportelli di supporto psicologico, educatori di strada (street workers). Non possiamo combattere la violenza con l’isolamento o con politiche repressive: serve una comunità che si fa carico, che non giudica ma accompagna. È lì che si costruisce una società più giusta, senza etichette o stereotipi, ma con responsabilità condivise.