Giovedì prossimo, 9 dicembre, presso la sala Torre Arsa della Biblioteca Fardelliana, con inizio ore 17, verrà presentato il libro “Né luna né santi” di Santo Lombino, edito da Navarra Editore. Prefazione di Nicola Grato, poeta e intellettuale palermitano; post fazione di Bernardo Puleio, docente di letteratura, scrittore e saggista. Ospitiamo una sinossi del libro e una breve ricostruzione del periodo storico politico a cura del professore Santo Graziano, già docente di storia presso istituti superiori del capoluogo e cultore di storia patria
È il 16 maggio 1920, una domenica sera, un paese dell’entroterra palermitano. L’arciprete, Padre Nuccenzio sta prendendosi il fresco e nel contempo leggendo il breviario proprio davanti la porta della canonica, quando viene raggiunto da alcune fucilate. Dopo due ore di agonia il sacerdote muore. Nel frattempo accorrono i vicini e i carabinieri. Il moribondo avrebbe detto il nome dell’assassino, anzi due, contraddicendosi. Un giovane paesano viene arrestato e tradotto all’Ucciardone.
Tali delitti non costituiscono una novità. Non si tratta né del primo caso né del primo uomo di Chiesa.
La gente si interroga su chi potrebbe avere veramente ucciso l’amato sacerdote e sui motivi: regolamento di conti? Vendetta privata o politica? Sgarro? Un segreto ricevuto in confessione?
Un giovane ferroviere, “alunno d’ordine” nella ferrovia raccoglie e annota sul proprio diario il chiacchiericcio, le ipotesi formulate nel paese dalle varie persone nei diversi luoghi: la sala del barbiere, la piazza, il laboratorio di una sarta. E intanto, tra un’ipotesi e un’altra si insinuano storie collaterali a quella che costituisce il nucleo del romanzo. Sono tante scene che sfilano una dopo l’altra come in una rappresentazione teatrale.
Così l’autore offre agli occhi del lettore un Paese ben caratterizzato con i suoi connotati ambientali, sociali e culturali, collocato in un contesto ben delimitato nel suo arco temporale. Siamo in un paese agricolo dell’entroterra siciliano in un periodo che va dal maggio 1920 all’agosto 1921.
Il paese è spopolato dall’epidemia di spagnola, dalla guerra che non ha restituito tanti giovani, dall’emigrazione. In quel territorio emergono con forza i problemi che oggi conosciamo: i latifondi passati di mano dagli antichi signori ai potenti gabelloti. La mafia degli agrari assume i propri connotati, mentre i contadini avanzano la richiesta delle terre e su questo si innestano le iniziative delle “Associazioni combattenti e reduci” che rivendicano sì la terra ai contadini purché reduci però dal conflitto bellico. Il paese è descritto nella sua struttura: la piazza con la chiesa madre, la stazione a valle del paese con i suoi treni che pur viaggiando lentissimamente e su binari a scartamento ridotto consentono il movimento pendolare con il capoluogo e lo scambio di merci.
L’autore avvezzo a lavorare su documenti e scritti personali e di archivio, rende vivo il racconto scegliendo per la forma narrativa quella diaristica. L’Io narrante in questo caso però, è un io narrante non onnisciente ma che dà voce alla comunità; che non diviene quindi protagonista, ma che finisce per consegnare il ruolo alla coralità del paese. Troviamo qui un’eco di forma letteraria verghiana.
Nella scelta linguistica Lombino, pur ricorrendo a qualche termine dialettale, lo fa limitatamente per indicare persone, o in frasi attribuite a bambini. Preferisce optare per le forme sintattiche dialettali o quelle tipiche del parlato, piuttosto che abusare di termini siciliani, mantenendo così una discorsività agile, fresca e chiara.
In un momento come questo in cui la produzione letteraria di autori siciliani occupa un posto di rilievo sul mercato editoriale, è bene fare alcune precisazioni: nel modo di raccontare di Lombino, come ricorda Nicola Grato nella prefazione, “non v’è traccia di alcuna malinconia del buon tempo andato, per la semplice ragione che chi scrive coscienziosamente dei paesi e nei paesi non può che riconoscere come il passato di questi luoghi sia ordito di storie di sfruttamenti, egemonia dei proprietari terrieri, lotta impari contro le zolle durissime di terreni inospitali da parte dei braccianti, partenze amare e ritorni frustranti”.
Il racconto non è narrazioni di palazzi e case padronali o baronali; è racconto di gente semplice, della loro povertà, delle loro sofferenze e dei soprusi subiti. Un racconto scritto da uno scrittore la cui sensibilità lungi dall’essere quella paternalistica di chi concede benevolenza ai poveri miserabili, è quella di chi come Lombino, come ricorda anche Bernardo Puleio nella sua posfazione ha da sempre mostrato simpatia per i ceti popolari e proletari. Una narrazione quindi dal di dentro e dal basso.
La forma testuale potrebbe essere definita quella del romanzo storico, perché del romanzo possiede quasi tutte le caratteristiche, a ciò però va aggiunto che la fabula e il contesto sono costruiti sulla base di documenti provenienti da archivi pubblici. Come ricorda lo stesso autore nella sua nota introduttiva, “appartiene alla realtà storica la cornice che evoca strutture sociali e le consuetudini di quella che è stata definita “civiltà contadina”.
Con questo romanzo Lombino ha operato il suo passaggio da scrittore di saggi di microstoria come l’avevamo apprezzato, ad autore di romanzo storico.
