Per il professore Salvatore Agueci il carcere metafora della vita monastica e della “cella” interiore

Molti siamo passati accanto al perimetro di un luogo di detenzione noncuranti di chi vi abiti dentro, pochi abbiamo attraversato i cancelli di una struttura carceraria. Eppure abbiamo del carcere una visione stereotipata: visto come luogo di pena esclusiva e di abbrutimento. Esso più che essere luogo di condanna è (o dovrebbe essere) uno spazio temporale di catarsi, la pena uno strumento di riabilitazione vitale.

Diciamo che tra la popolazione carceraria, attualmente è di 60.885 unità, a fronte di una capienza di 50.692, troviamo persone colpevoli di aver commesso un crimine, ma sovente ne troviamo innocenti, costretti a subire una condanna di cui non sono direttamente responsabili e, solo per uno “scherzo del destino”, forzati a dover limitare la loro libertà. Tra questi, poi, troviamo coloro che sono ancora più svantaggiati, gli stranieri, sono 20.255, il 33,9 per cento dei detenuti totali, di cui il 4,5 per cento donne (il 66 per cento sono quelli compresi fra i 18 e i 20 anni d’età). La maggior parte di loro sono senza fissa dimora e non possono accedere a misure alternative se non in strutture quasi sempre al limite della capienza. Per alcuni è una vita obbligatoria poiché al di fuori del carcere non sanno più ove andare: privi di relazioni sociali e senza mezzi di sostentamento e di possibilità di ottenerli, l’autonomia li spaventa.

Comunque sia (anche se non è la stessa cosa), la cella è luogo di contraddizione tra la privazione di libertà e la libertà stessa. In ambedue i casi c’è chi l’accetta consapevolmente e chi è costretto a starci. Nella prima ipotesi è luogo di riflessione, di maturazione e di crescita, luogo spirituale di elevazione e di “evasione”, ma può diventare un inferno se il soggetto stabilisce il suo rapporto con le barriere e con i compagni come imposizione ed elementi da contrastare e abbattere (la presenza dello psichiatra diventa allora fondamentale e il supporto continuativo). Ecco perché la cella elabora i sentimenti e le emozioni, li intensifica, ma spesso li distrugge inesorabilmente. Per questi quell’esperienza è una parentesi della vita, dalla quale non imparano alcunché e, appena fuori, ritornano come prima: sono vulnerabili o privi di strumenti capaci di essere valorizzati (o da far apprezzare dagli organismi preposti) a partire da quel “poco” che posseggono.

Per chi è inquilino in un tempo permanente c’è un bisogno di condivisione e di partecipazione, di umanizzazione: la cella diviene luogo di dialogo, di supporto, di accoglienza anche di negazione consapevole. Le quattro mura divengono metafora della vita, sia interiore che di spiritualità. Una percentuale di ristretti è chiamata a svolgere un lavoro parziale retribuito, altri si dedicano al volontariato interno; questo permette loro di guadagnare qualcosa, ma soprattutto di evadere mentalmente e impegnare consapevolmente il tempo giornaliero ai bisogni degli altri.

Il tempo di detenzione, è un luogo in cui si può prendere coscienza della propria identità e del ruolo nel mondo, ma occorre umiltà, disponibilità a lasciarsi “manipolare” per il raggiungimento di un progetto che spesso li sovrasta. La cella diventa immagine della vita monastica. Le grate, sia in carcere che nei monasteri di clausura, come anche nell’intimo della persona sono il segno della libertà fisica imposta alla persona dalla società e a se stessi. La lettura, la preghiera e la meditazione, la scrittura diventano strumenti che nobilitano la persona umana. L’incontro con gli altri: compagni di cella, operatori carcerari (guardie, educatori, psicologi, assistenti sociali), volontari… diventa un momento di condivisione e di crescita morale e culturale. Non sono pochi i casi di ristretti che diventano artisti, pittori, poeti, scrittori e monaci: hanno saputo elaborare quella ricchezza interiore da viverla e trasmetterla attraverso le pagine di un libro, una tela, un’opera o proseguire l’esperienza di volontariato, una volta scarcerati.

Dimenticare questa porzione della società ed essere indifferenti a queste persone, che per un motivo o un altro non hanno percepito il loro ruolo, da parte dell’umanità “nobile”, è quanto di più orribile ci possa essere in un tessuto sociale. La legge Gozzini ha favorito questa presa di coscienza e ha dato risposte, ma spesso sono lettera morta o ci si limita a delle soluzioni burocratiche (permessi premio, domiciliari, misure alternative…). Limitarsi alle risposte di routine, sperando che altri facciano dei passi verso il miglioramento della loro personalità, è continuare a essere indifferenti verso una porzione di popolazione che, finché esiste, è una provocazione a un’intera nazione. Quando non educhiamo il detenuto non è lui a perdere ma la società tutta! O il carcere diventa, allora, luogo di presa di coscienza o non è carcere: un luogo ove detenere una persona per farla abbrutire non assolve al suo ruolo umano, sociale, esistenziale.

Il non raggiungimento degli obiettivi educativi, morali, sociali, umani, ambientali, culturali… a favore dei detenuti è un tradimento della società nei confronti degli stessi. Coalizzarci perché il ristretto non sia isolato è un cammino di maturazione non solo del territorio ma di ogni individuo.

Non c’è più povero e incatenato di chi non ha la capacità di ragionare e leggere la storia e gli avvenimenti. Ciascuno di noi fa parte di questa povertà esistenziale e in qualche modo siamo dei prigionieri di noi stessi. Uscire assieme è vittoria “politica”, abbandonare chi è in difficoltà è un morire persistente di tutti.

SALVATORE AGUECI – mediatore culturale Casa Circondariale Pietro Cerulli