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venerdì, Aprile 19, 2024
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L’ultimo schifazzo torna a galleggiare

Il “Gesù, Giuseppe e Maria, di proprietà della Lega Navale di Trapani, nell’attesa di essere restaurato è stato svuotato dall'acqua, tornando così a galla. Fino a pochi giorni addietro era semiaffondato nello specchio d'acqua antistante il Lazzaretto.

di Mario Torrente

 Il “Gesù, Giuseppe e Maria, lo storico schifazzo di proprietà della Lega Navale di Trapamo, nell’attesa di essere restaurato è intanto stato riportato a galla. Fino a pochi giorni addietro era semiaffondato nello specchio d’acqua antistante il Lazzaretto, con la chiglia che poggiava sul fondo. Ma nei giorni scorsi la storica imbarcazione è stata svuotato dall’acqua. Sono state anche tamponate le falle sulla carena per non farla sprofondare. Il che ha permesso di riportare la storica barca nuovamente a galla. La Lega Navale di Trapani, che ne è proprietaria, ha infatti disposto un intervento subacqueo anche nella parte sommersa provando a chiudere, per quanto possibile, le aperture da cui entra l’acqua. Come ovvio, lo schifazzo ha bisogno di un vero e proprio restauro. La Lega Navale di Trapani punta tra l’altro a realizzare un vero e proprio museo in mare, come prospettato dal presidente Nicola Di Vita.

ASCOLTA L’INTERVISTA AL PRESIDENTE DELLA LEGA NAVALE NICOLA DI VITA

Il “Gesù, Giuseppe e Maria” è dunque di nuovo a galla. E questa è una prima buona notizia che lascia ben sperare per il futuro. Come ovvio, lo schifazzo ha bisogno di un vero e proprio restauro. Deve andare in un cantiere navale per lavori che appaiono sempre più urgenti. Intanto, però, si sta provando a tenerlo a galla. Così, nell’attesa che si trovino le somme per procedere al recupero di questa antichissima barca, magari grazie a degli sponsor e procedendo per stralci, per lo meno adesso è possibile rivedere le forme di questa bellissima “signora” del mare tutta trapanese, con la prua e la poppa leggermente rialzate rispetto al resto dello scafo, più largo nella parte prodiera, i suoi colori scuri (caratteristica di questa parte della Sicilia). Una barca con elevata capacita di carico, basso pescaggio ed in grado di navigare con mare mosso, molto robusta e manovrabile, insellata nella parte centrale, con la prua e la poppa poco slanciata, la coperta leggermente bombata per permettere il deflusso dell’acqua dellle ombrine laterali. Ed ancora la maestosa prua capace di tagliare il mare affrontando le onde grazie all’abilita di chi stava al timone.

Una struttura ideata dai mastri marina e che parla trapanese in ogni suo legno, con le ordinate, al chiglia, i paramezzali e tutti gli altri “pezzi” di questo capolavoro ingegneria navale d’altri tempi sistemati ad arte. Una barca costruita con la tecnica del mezzo galbo, anticamente senza disegni ma esclusivamente nella testa degli abilissimi mastri d’ascia, che meriterebbe di entrare a pieno titolo nei manuali e dizionari marittimi.

Lo schifazzo è infatti una barca nata nei cantieri trapanesi. Ci sono sue tracce già in alcuni atti notarili del 1500 custoditi nell’archivio di stato. Da Trapani queste imbarcazioni, con lo scafo che segue lo stesso modello e le vele che potevano passare da una a tre alberi (trinchetto, maestro e di mezzana) si sono diffuse in tutta la Sicilia, arrivando fino in Calabria. Basta ricordare il “San Francesco di Paola” di Paolo Florio, il capostipite della famiglia Florio che sui traffici marittimi nel Mediterraneo fatti con il loro schifazzo costruirono la loro fortuna. Ma non solo. Fu uno schifazzo, il “Gesù, Maria e Giuseppe”, che nel 1831 partendo da Sciacca, con a bordo il professore Karl Hoffman, raggiunse l’isola Ferdinandea venuta fuori nel bel mezzo del Canale di Sicilia dopo l’eruzione del vulcano sommerso Empedocle.

Ma gli schifazzi si trovavano soprattutto Trapani, nelle isole Egadi, tra i canali delle saline, navigando nel Mediterraneo cariche di merci anche per le rotte del nord Africa. Queste imbarcazioni hanno praticamente contribuito alla crescita economica della città e furono raccontati, con tanto di schizzi, dal famoso scrittore francese Hennique, come ha ricordato il professore Pietro Monteleone nel suo libro “Barche tipiche trapanesi”, che ha anche riportato un dato per rendere l’idea dell’importanza di queste barche: nel 1867 Trapani contava una flotta di ben 120 schifazzi, a cui era riservata una intera parte del porto davanti Porta Serisso. Insomma, erano davvero tanti. Trapani commerciava, pescava e navigava sugli schifazzi. Queste barche rappresentavano quasi un cordone ombelicale della città con i luoghi dove c’erano interessi economici. Posti in cui andare. Merce da caricare. Roba da trasportare. Lavoro da fare.

La loro storia, oltre che di traffici marittimi, pesca e abilità marinare, racconta anche dell’audacia e del coraggio dei nostri antenati trapanesi. Sembra infatti che la parola “schifazzo” derivi dal tedesco “schiff”, che significa barca. Ed a Trapani veniva usato il termini “schifo” proprio per indicare una piccola barca. Usata, ad esempio, come piccolo battello a supporto dei pescherecci che andavano a cianciolo. Ma nel nome di questo “legno” ci potrebbe essere anche la città tunisina di Sfax. Si narra infatti di una spedizione punitiva dei trapanesi per vendicarsi delle scorrerie fatte dai pirati che facevano base a Sfax. Partendo con i loro schifazzi armati di cannoni, dopo avere veleggiato per il canale di Sicilia, andarono a rendere pan per focaccia ai “turchi” nell’altra sponda del Mediterraneo. Dal tedesco “schiff”, poi diventato “schifo”, con l’aggiunta di “Sfax” potrebbe dunque avere avuto origine la parola schifazzo. Un’altra ipotesi rimanda invece al modo di storpiare le parole in dialetto trapanese. Partendo dallo “schifo” di matrice germanica la parte finale potrebbe essere stata aggiunta per rendere l’idea di una barca più grossa e da carico. Un po’ come la “varcazza” della Tonnara o la “galeazza”. Lo schifazzo potrebbe dunque essere un grande “schifo”, che da piccola barca di supporto come quella ancora menzionata nel gergo marinaro trapanese si è evoluta in una imbarcazione più grande per il trasporto delle merci.

Per la verità c’è una barca, presente nei dizionari marittimi, che ha un nome simile allo schifazzo, lo schirazzo, di origini orientali, nelle fonti antiche menzionato come dei battelli siriani e cretesi. Forse usate anche dai Veneziani. Ma si tratta di barche a vela quadrata, con lo scafo più simile al trabaccolo, imbarcazione tipica del Mar Adriatico. A parte una assonanza nel nome, una “r” al posto della “f”, non sembra esserci altro in comune.

Lo schifazzo è insomma una barca tutta trapanese, frutto dell’abilità di mastri marina (a Trapani i mastri d’ascia si chiamavano così) della città falcata di cui purtroppo oggi, nel porto che i fenici chiamarono “Darban”, resta solo il “Gesù, Giuseppe e Maria”, la cui scritta si può leggere nuovamente nella fiancata di sinistra dopo essere rimasta per un po’ sott’acqua. Un po’ sbiadita, sicuramente da riprendere. Ma c’è. Si trova all’altezza degli ombrinali e presto potrebbe tornare ad incontrare la spuma delle onde del mare. Perchè questa antica imbarcazione è recuperabile ed una volta restaurata potrebbe navigare nuovamente, magari raccontando la plurisecolare storia della marineria trapanese a bambini e ragazzi che hanno più di valido motivo per andare fieri delle loro origini. Dell’abilità è del coraggio per mare dei loro antenati. Della maestria di chi sapeva modellare e impermiabilizzare il legno (calafataggio) realizzando delle barche uniche capaci di arrivare a destinazione anche con le condizioni più avverse. Portando in porto carico e ciurma.

Questo schifazzo, l’ultimo della gloriosa flotta trapanese, oggi ormeggiato alla Lega Navale, s’ha dunque da salvare. E bisogna fare presto. Come prima cosa andrebbe tirato in secco in un cantiere navale per sistemare lo scafo, sostituendo le tavole malconce ed impermeabilizzando la carena in modo da non fare più imbarcare acqua. Dopodiché ci sarebbe da togliere la cabina, rimettere l’albero maestro, antenna, vela latina e tutto l’armamentario necessario per catturare il vento facendolo diventare quel motore ecologico che per millenni ha permesso di andare ovunque e che, su una barca del genere, potrebbe aprire nuovi orizzonti. Perchè una barca è anche questo. Un orizzonte da conquistare. Ed oggi questo orizzonte è la sfida per salvare l’ultimo schifazzo trapanese ed iniziare una azione per valorizzare e tutelare quel patrimonio di tradizione marinara stampato a caratteri cubitali del dna di questa città. Dopodiché si potrà indirizzare la prua verso nuove rotte. Scrivendo una nuova pagina di questa storia tutta trapanese…

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