Lettera dalla Tunisia. A scuola di siciliano, di Alfonso Campisi

“Ho letto con molta attenzione le diverse prese di posizione riguardo alla questione della lingua siciliana da parte di alcuni accademici e colleghi universitari siciliani. Devo confessarvi che ho molto esitato a scrivere queste righe, ma riflettendoci bene mi é sembrato doveroso far sentire anche la mia voce al di là del Mediterraneo.

Comprendo e rispetto il punto di vista di certi docenti universitari, frutto di un’analisi accademica che mira a preservare il rigore scientifico e la complessità del nostro patrimonio linguistico come giusto che sia.

Tuttavia, e senza voler sollevare nessuna polemica, desidero esprimere alcune riflessioni in risposta alle vostre preoccupazioni. Credo fermamente che la valorizzazione della lingua siciliana non debba essere vista come un tentativo di svilire un patrimonio culturale complesso, bensì come un’opportunità per arricchirlo e preservarlo in maniera più viva e partecipata.

Portare la lingua siciliana nelle scuole, come già avviene in gran parte d’Europa e nelle altre quattro regioni a statuto speciale, non significa imporre un modello unico o artificiale, né ridurre la sua ricchezza a una questione ideologica. Al contrario, significa fornire strumenti utili per valorizzarla, trasmettere alle nuove generazioni la consapevolezza di questa eredità linguistica e suscitare interesse e curiosità verso le sue varietà locali.

Lungi dal rappresentare un “baratro formativo”, l’introduzione dello studio della lingua siciliana potrebbe rafforzare le competenze metalinguistiche degli studenti, migliorare la loro comprensione della lingua italiana e persino facilitare l’apprendimento di altre lingue. L’educazione bilingue è un modello consolidato che porta benefici cognitivi e culturali ampiamente documentati.

Comprendo anche il vostro timore di una politicizzazione eccessiva del dibattito, tuttavia, credo che sia nostro compito, come cittadini e come studiosi, cercare di superare le divisioni ideologiche e concentrarci sul valore intrinseco della lingua siciliana come uno dei tanti elementi fondamentali della nostra identità culturale.

Negare ai parlanti gli strumenti per conoscere, scrivere e tramandare la propria lingua significa, di fatto, limitare i loro diritti e impoverire il nostro patrimonio collettivo. Una lingua che non si vuol far scrivere rischia di essere dimenticata e relegata a un ruolo marginale.

La pianificazione linguistica è un campo di studi consolidato e non un’utopia e esistono modelli e strategie che possono essere adottati per valorizzare la lingua siciliana nel rispetto della sua complessità e delle sue diverse varietà.

In qualità di ordinario di filologia romanza e presidente della “Cattedra di Lingua e Cultura siciliana Vincenzo Consolo”, prima Cattedra al mondo di lingua siciliana, fondata  nel 2015 presso la facoltà di lettere dell’università della Manouba di Tunisi, in presenza e in accordo con Caterina Pilenga Consolo, vedova del grande scrittore siciliano Vincenzo Consolo, desidero esprimere il mio profondo disappunto e la mia ferma opposizione alla posizione assunta da alcuni membri del mondo accademico in merito al Disegno di Legge Voto (DDL Voto) depositato in Regione lo scorso 16 maggio (?), dai deputati dell’Assemblea Regionale Siciliana, On. Lombardo, Di Mauro, Carta e Balsamo e volto a inserire la lingua siciliana nell’elenco delle lingue tutelate dalla legge nazionale n. 482 del 1999, insieme alle regioni Sardegna e Friuli Venezia Giulia.

Ritengo che le recenti prese di posizione, possano rappresentare un passo indietro inaccettabile per la salvaguardia e la valorizzazione del nostro patrimonio linguistico e culturale.

Comprendo e rispetto il rigore scientifico che anima parte della comunità accademica siciliana, tuttavia, non posso condividere sempre le stesse argomentazioni portate avanti da certi colleghi universitari, che sembrano sminuire l’importanza e la dignità della lingua siciliana. Definirla semplicemente un “dialetto” e negarne il valore educativo e culturale significa ignorare la sua ricca storia, la sua complessa struttura grammaticale e lessicale, e il suo ruolo fondamentale nell’identità del popolo siciliano.

L’uso della lingua siciliana nelle scuole non dovrebbe essere visto come un ostacolo all’apprendimento dell’italiano o di altre lingue, bensì come un’opportunità per arricchire il bagaglio culturale degli studenti, promuovere un senso di appartenenza e radicamento nel territorio, e sviluppare competenze linguistiche più ampie attraverso la consapevolezza della diversità, proprio come è accaduto nell’ultimo ventennio in Francia, in Spagna e in altri paesi del mondo.

Sostenere che l’insegnamento del siciliano sia impraticabile o dannoso mi pare una visione miope che non tiene conto in maniera del tutto generale del crescente interesse verso le lingue locali, del loro valore intrinseco e oltretutto mi sembra irrispettoso verso tutte quelle associazioni, cultori, docenti universitari e gente comune che da anni lavorano e credono nel siciliano. 

Ricordatevi che nessuno detiene la verità, neanche il più saggio fra tutti i saggi…

In un mondo globalizzato, preservare e tramandare le specificità linguistiche e culturali rappresenta un atto di resistenza culturale e un investimento nel futuro.

Credo fermamente che l’insegnamento della lingua siciliana possa rappresentare un’importante risorsa per la crescita culturale e sociale della nostra regione.

Sebbene da docente universitario comprenda il vostro approccio accademico rigoroso, desidero però ribadire che la definizione di “dialetto” è spesso associata a una varietà linguistica subordinata a una lingua “standard” di riferimento, priva di un pieno riconoscimento sociale e istituzionale, e di certo, non è il caso del siciliano, parlato e compreso ancora oggi da milioni di persone in Italia e dalle numerosissime diaspore presenti in diversi paesi del mondo che  a distanza di generazioni continuano ad esprimersi in siciliano mantenendo così viva la sua identità culturale forte e un senso di appartenenza linguistica e culturale radicato. La sua vitalità nell’espressione popolare, nella tradizione orale, nella musica e, sempre più, in forme di espressione scritta contemporanea, ne testimoniano la sua forza intrinseca.

Alla luce di queste considerazioni, la persistente etichettatura del siciliano come “dialetto” appare più come una reliquia di una prospettiva linguistica centralista che come una descrizione accurata della sua realtà intrinseca.

Rivolgendomi ora specificamente a tutti quegli accademici che da tantissimi anni si schierano contro iniziative come l’insegnamento del siciliano nelle scuole, sorge spontanea una domanda che potrebbe apparire molto naïve ma che di fatto non lo é: cosa o chi, concretamente, al di là della pur necessaria pubblicazione di testi scientifici, vi ha impedito in tutti questi decenni di dedicare energie e competenze allo sviluppo di risorse linguistiche e didattiche e alla formazione di figure professionali qualificate?

Da docente universitario, non posso di certo non riconoscere l’estrema importanza della ricerca e delle pubblicazioni scientifiche, che però non possono e non devono essere l’unico ambito di azione per chi riconosce la dignità linguistica di una lingua. La creazione di un’infrastruttura linguistica a supporto di una lingua è un processo complesso che richiede un impegno attivo da parte di linguisti, educatori e parlanti. Sono altrettanto cosciente che la formazione di docenti preparati è  cruciale per garantire una trasmissione efficace e consapevole di questa ricchezza linguistica alle nuove generazioni.

Se il vostro timore principale è stato ed é la mancanza di strumenti e di personale qualificato, non credete che in tutti questi decenni, un vostro maggiore coinvolgimento attivo in questi ambiti avrebbe potuto contribuire significativamente a superare tali ostacoli? 

Invece di opporsi a iniziative volte a valorizzare il siciliano come lingua, non sarebbe stato più costruttivo mettere a disposizione la vostra expertise per guidare e supportare i processi di creare materie e formazione, garantendo così un approccio rigoroso e scientificamente fondato?

Il rischio più grande non è certo quello di “snaturare” il siciliano attraverso un suo insegnamento consapevole, ma piuttosto quello di assistere alla sua progressiva marginalizzazione e al suo inevitabile declino, privando le future generazioni di un elemento fondamentale della loro identità culturale. E questo che volete?

Spero in una vostra riflessione costruttiva su questi interrogativi, auspicando un maggiore impegno da parte del mondo accademico siciliano, che ricordo non è il solo ad avere il diritto di esprimersi e ahimé a lanciare moniti,  non solo nella descrizione scientifica, ma anche nella promozione attiva e nella salvaguardia concreta di questa nostra preziosa lingua”.

Cav. Prof. Alfonso Campisi, Ordinario di filologia romanza, Presidente della Cattedra Sicilia Vincenzo Consolo, Presidente AISLLI-UNESCO per il continente africano – Université de la Manouba, Tunisie