Le verità inseguite

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Il delitto Rostagno: un mosaico in cui mancano alcune tessere e altre sono state posate nel posto sbagliato. Indagini, ribaltamenti di tesi accusatorie, sentenze parzialmente riformate, un processo ad alcuni dei testimoni del giudizio di primo grado.

di Fabio Pace

Mauro Rostagno visse tante vite, morì una sola morte, forse per molteplici ragioni. Venne ucciso a Lenzi, poche centinaia di metri prima dell’ingresso della Comunità Saman, il 26 settembre 1988. Per quell’omicidio furono condannati in primo grado a più di 30 anni da quel 26 settembre, il capomafia trapanese, Vincenzo Virga e il presunto esecutore materiale Vito Mazzara. In appello confermato l’ergastolo al primo, assolto il secondo, poiché le prove scientifiche delle tracce di DNA sull’arma del delitto, rilevate decine di anni dopo, non ressero la tesi accusatoria del secondo grado. Deve celebrarsi il processo di Cassazione. Il processo di primo grado ha una propaggine nel giudizio a 15 testimoni accusati a diverso titolo di reticenze e falsa testimonianza, il che la racconta sulle molteplici ombre che ancora pesano su quel delitto. Compresa l’inquietante tesi, però mai dimostrata, che Rostagno avesse documentato un traffico d’armi attraverso la vicina pista di Kinisia. Dalle nebbie del passato emergono torbide trame dei servizi segreti; e poi c’è il filone principale, la mafia; e ancora gli interessi e il ruolo di Francesco Cardella raccontanti nell’inchiesta Codice Rosso, con le trame interne a Saman che non ebbe effetti processuali, e l’abbandonata pista degli ex di Lotta Continua. Non va dimenticato neppure quanto Rostagno desse fastidio alla politica locale, sebbene mai alcuno fu neppure lontanamente sospettato. Quale che sia il motivo della morte di Rostagno essa fece comodo a tanti.